Per 10 anni ho svolto la professione di psicopedagogista in un centro di recupero per adolescenti borderline
I ragazzi arrivavano al nostro centro mandati dal Tribunale dei minori e dai servizi sociali dopo aver sperimentato un vero e proprio fallimento all’interno della scuola pubblica per svariate motivazioni. Alcune di queste riguardavano i disordini di condotta che potevano includere anche orientamenti delinquenziali.
I nostri erano tutti ragazzi le cui energie mentali si esaurivano nel continuo tentativo di affrontare i problemi familiari (povertà, violenza, delinquenza, malattia, emarginazione, droga, degrado, problemi nella coppia genitoriale). In tali contesti avevano sviluppato personalità disturbate causate soprattutto dalla mancanza di punti di riferimento e di limiti, da uno stato di abbandono e di carenze affettive, dall’ assenza di stimoli, di cure e di comunicazione.
Queste situazioni causavano nei ragazzi profonde sofferenze, disperazione interiore, confusione, angoscia di solitudine, ansia, frustrazione e depressione. Il comportamento che ne conseguiva era caratterizzato da irrequietezza, insofferenza, inquietudine, da scatti improvvisi di rabbia e di aggressività. Si verificavano crisi di panico e di angoscia causate dallo smarrimento e dalla sensazione di inutilità, di passività e apatia. Spesso perdevano il controllo di sé e il contatto con la realtà in quanto erano travolti dal loro mondo interiore e dai loro vissuti ed emozioni.
I ragazzi avevano una visione disfattistica della vita che era vissuta solo come fonte di dolore e come sfida continua per la soddisfazione dei bisogni di base. Erano sospettosi, in continua competizione fra loro per guadagnarsi un’attenzione che colmasse il loro vuoto esistenziale.
Se questo era il quadro della loro personalità si capisce come avessero potuto trovare estreme difficoltà lungo il processo di scolarizzazione e di socializzazione con i compagni. La scuola, che costringe ad una presa di coscienza di quello che si è e delle proprie capacità e il confronto con i coetanei erano per loro fonti di continui insuccessi. La classe da dove erano stati cacciati era l’ambiente che più di ogni altro metteva in evidenza la loro negatività, la loro incapacità a sottostare alle regole, il loro disadattamento relazionale, l’apatia e la demotivazione. Ma l’inibizione ad apprendere era solo un aspetto del loro modo di essere e del loro disinteresse esistenziale.
La nostra sfida continua era suscitare un segno qualunque di vitalità nei loro occhi. Nessuna proposta suscitava in loro particolare attenzione o motivazione all’ impegno. L’instabilità psicomotoria frequente era un mezzo per sfuggire al contatto con il mondo esterno ma anche col loro mondo interiore. Il rifiuto ad apprendere in alcuni casi era anche una reazione d’opposizione camuffata contro i genitori. Un tentativo di punirli autodistruggendosi. Nella scuola si evidenziavano tutte le loro paure: di ricevere disapprovazione, di sentirsi inadeguati, di mettere in funzione la loro mente, di porsi in prospettiva di un futuro incerto. E la paura spesso rende aggressivi. L’indifferenza che mostravano era solo apparente affinché gesti e parole di commiserazione e di condanna non arrivassero più a toccarli. I compagni sempre vissuti come rivali, gli insegnanti come giudici.
La vita nel Centro
Alcuni dei ragazzi vivevano nel centro, altri tornavano di sera a casa dove li aspettava quel che restava della loro famiglia. Al mattino frequentavano la scuola interna di cui ero diventata la responsabile e in cui insegnavo matematica in virtù del mio liceo scientifico. In quel ruolo dovevo mantenere i contatti con la scuola pubblica in cui alla fine dell’anno sostenevano gli esami di ammissione alla classe successiva come privatisti, facendo periodicamente relazione sui loro progressi psicologici e scolastici.
Tutti noi dell’equipe si mangiava coi ragazzi, organizzavamo giochi per le ore di relax e poi il pomeriggio era speso nei vari laboratori. Io e una delle assistenti sociali del centro avevamo allestito e gestivamo il laboratorio di cucina. C’erano anche una palestra, un laboratorio artistico e uno per la lavorazione del cuoio. Lungo la giornata i ragazzi avevano i loro individuali incontri con lo psicologo o con la psicoterapeuta o con me nel mio specifico ruolo di psicopedagogista. In quelle ore con me facevano dei lavori che poi sarebbero serviti come base per alcune sedute psicologiche.
Percorso dunque di terapia (individuale e familiare) e di rieducazione. Il primo obiettivo era quello di entrare in relazione con loro, una relazione significativa e di fiducia. L’importante era il tono di questo rapporto, l’energia e il calore che ci si metteva. Alla base c’era l’accoglienza e l’ascolto profondo, quello in grado di percepire le paure, le ansie, le debolezze ed era molto importante perché comunicava un interesse autentico.
Si cercava allora di soddisfare alcuni dei loro bisogni primari, di porci in un atteggiamento di accettazione e di valorizzazione per una ricostruzione della loro identità personale. Favorire la sperimentazione anche del più piccolo successo e di un senso di autoaffermazione per prendere coscienza dei propri mezzi e del proprio valore era dunque il nostro secondo obiettivo.
Solo dopo i ragazzi pian piano sarebbero stati in grado di sopportare dei sacrifici per raggiungere degli obiettivi e di acquisire una certa tolleranza alla frustrazione per i piccoli e normali insuccessi.
Il compiacimento di saper fare aiutava i ragazzi a contrastare i loro vissuti di confusione e di incapacità, di apatia e la sensazione di mancanza di controllo sulla loro vita. Gradualmente era così che venivano superati i sensi di colpa che seppellivano la loro autostima e li buttavano in angosce di annientamento, di impotenza specie se la svalutazione della loro immagine era paragonata ai loro pari.
Da noi spesso sperimentavano per la prima volta il sostegno di qualcuno che credesse in loro, che li incoraggiasse e li sostenesse. Anche in classe poco alla volta recuperavano la capacità di attenzione, di concentrazione e di apprendimento, la capacità a sostenere un impegno, una fatica e di saper rimandare le gratificazioni.
La nostra scuola con le sue particolari caratteristiche e metodologia specifica era l’ambiente più adatto per riuscire ad amplificare i cambiamenti dei comportamenti nelle dinamiche di gruppo, era una palestra in cui riprendere il processo di socializzazione, in cui allenare la capacità dei ragazzi di adeguarsi alle regole del vivere insieme, un luogo dove sentirsi inseriti in modo costruttivo in un contesto sociale. Quando i ragazzi svoltavano il loro modus vivendi per darsi una chance, darsi degli obiettivi, ritrovare interesse per la vita e la voglia di goderne per noi era un successo.
Qua di seguito alcuni collage dei ragazzi, uno dei lavori che proponevo loro nei miei incontri con loro per indagare il loro vissuto familiare di cui difficilmente riuscivano a parlare.